Una tempesta di pensieri.

Questo mi ha lasciato la visione della docu-serie “Sampa”, su Netflix. Ambientata tra il 1978 e il 1995, narra le vicende della comunità di recupero per tossicodipendenti, dalla fondazione alla morte del suo creatore: Vincenzo Muccioli.

Personaggio a dir poco controverso, Muccioli balza agli onori della cronaca italiana, in un momento in cui lo stato non sapeva dare risposte al fenomeno della tossicodipendenza, che come un’onda anomala e improvvisa, aveva spazzato via una generazione di ragazzi.

Non una generazione qualunque, attenzione, ma quella del 1968, delle proteste, e dei grandi movimenti di massa che contestavano il potere. La società era in grande subbuglio quando, improvvisamente, un enorme flusso di eroina, droga nuova e sconosciuta, aveva invaso il paese, con la complicità della mafia e il silenzio delle istituzioni, che, grazie alla polvere bianca videro spegnersi la scintilla ribelle dei ragazzi del 68.

L’onda anomala però non si limitò a questo, l’eroina apparsa sul mercato iniziò ad insinuarsi tra le maglie del tessuto sociale, colpendo profondamente e senza distinzioni. La tossicodipendenza divenne una piaga e nessuno sapeva cosa fare.

Intanto, su una sperduta collina del riminese, Vincenzo Muccioli tra polvere e fango stava creando la realtà di San Patrignano, dove ben presto centinaia e poi migliaia di ragazzi disperati e consumati dalla droga, presero a riversarsi in quello che sembrava un faro in una notte psichedelica.

Muccioli, il padre, il salvatore. Un uomo burbero, narcisista e misogino, ma nel contempo paradossalmente filantropico, geniale e carismatico. Riesce a costruire parallelamente una comunità di recupero e un grande business.

I suoi metodi violenti, tuttavia, ben presto vengono a galla, ma in fondo sta salvando molte vite e poi con i tossici forse la violenza è l’unico metodo correttivo, altri al momento non ce ne sono. L’opinione pubblica è divisa, e lo Stato non solo chiude un occhio, anzi, i politici iniziano a interessarsi a quell’uomo che è sulla bocca di tutti e che ha salvato così tante persone, pare una potenziale macchina da voti e così si affannano per accaparrarselo.

Ebbro di potere e di denaro, Vincenzo Muccioli scivola in un vortice di autodistruzione, la procura di Rimini gli sta con il fiato sul collo, e la caduta del salvatore sembra sempre più vicina.

Quando viene condannato per il caso Maranzano pare quasi un Rodion Raskol’nikov, che in “Delitto e castigo” si consuma nei rimorsi per aver ucciso. Non è però il rimorso a consumare Muccioli, supposizioni dicono che fosse malato di AIDS, e che avesse contratto l’HIV da uno degli ospiti della comunità (forse pungendosi con un ago, forse per una relazione omosessuale), in ogni caso si ammala e muore, portando con sé i segreti di “Sanpa”.

Che dire, una storia che conoscevo solo marginalmente e che mi ha fatto profondamente riflettere sulla società di quei tempi. Un racconto lucido e obiettivo che non ha paura di commuovere e sconvolgere.

Da vedere assolutamente.

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